Racconti brevi

Parole guardate 2019 – Peccioli

Ormai da quattro anni partecipo al laboratorio di scrittura creativa Parole Guardate organizzato dalla Fondazione PeccioliPer. Questa edizione ha avuto come protagonista lo scrittore Giampaolo Simi e i suoi romanzi. Da questi ultimi abbiamo estrapolato personaggi e ambientazioni per creare nuovi racconti e nuove storie prendendo spunto da ciò che più ci aveva colpito.

Mi piace partecipare a questo laboratorio. Ogni volta ho avuto la possibilità di allenare le mie abilità e scoprire nuovi percorsi da intraprendere con le parole. Dopo aver letto alcuni libri di Simi, ho scelto la sfortunata protagonista de La ragazza sbagliata e ho deciso di darle una seconda possibilità, scompaginando così la trama del romanzo.

*Attenzione: spoiler alert. Se ancora non avete letto La ragazza sbagliata, il mio racconto vi rovinerà la sorpresa finale. Vostra la scelta se dare la priorità al libro o al mio racconto.*

La Salamandra

Nel buio si manifestava un pullulare di suoni e fruscii. Richiami, versi di uccelli notturni simili a ululati, un gocciolio costante e lontano. Irene era riuscita a riaprire gli occhi e aveva provato ad orientarsi in quella oscurità che sembrava averla inghiottita. Aveva gridato dalla disperazione e pregato, aveva pianto e implorato aiuto. Erano trascorse ore, oppure giorni?

Si rannicchiò in se stessa, chiuse gli occhi coprendoli con le mani. L’assenza di luce, di punti di riferimento visivi, le impediva di pensare con razionalità. Le sembrò d’impazzire.

Iniziò a tremare di una paura che non aveva mai provato. Si rannicchiò ancora di più contro quella parete umida, facendosi piccola e contenendo le sue gambe magre con le braccia. Il pulsare della testa le fece affiorare le lacrime agli occhi, lacrime di dolore che si mescolarono a quelle di un pianto dirotto. Cosa le era capitato? Chi l’aveva portata in quel luogo e perché la testa le faceva così male? La afferrò con entrambe le mani, stringendola e avvertendo sotto i polpastrelli un rigonfiamento grosso come una noce che le si era formato sulla parte posteriore del cranio. Restò immobile fino a cadere preda del sonno.

Fu un tramestio a destarla. Un grufolare e poi dei versi e dei soffi. Li sentì vicini, come se fossero accanto a dove stava seduta. “Animali,” pensò, “animali selvatici”. Cinghiali o istrici. O lupi? No, era da un pezzo che di lupi non se ne vedevano più in Versilia. Ne avevano parlato con la Bianchini nell’ora di scienze. La prof aveva sorriso dicendo che in futuro magari sarebbero riapparsi, frutto di migrazioni da altre zone dell’Europa o a seguito di progetti di ripopolamento, così come stava avvenendo in Trentino con gli orsi sloveni… Il flusso dei pensieri venne interrotto da un grugnito. Sussultò e si strinse ancora più forte le ginocchia al petto. Trattenne il respiro e le lacrime tornarono a bagnarle gli occhi.

“Perché sono qui, cosa ho fatto per meritarmi questo? Chi mi ci ha portata?” Il dolore alla testa era insopportabile. Con cosa l’avessero colpita e per quale motivo non fosse riuscita a vedere in faccia il suo aggressore, restavano per lei un mistero.

Era quell’ora del mattino in cui le ragnatele sono imperlate col sudore della notte appena conclusa. La calura estiva non sarebbe stata in grado di raggiungere quella zona del bosco, nemmeno nelle ore centrali della giornata. I rumori che avevano animato il buio si erano piano piano diradati fino a sparire quasi del tutto per cedere il posto a suoni che, sotto i raggi del sole, avevano un aspetto meno inquietante o per nulla minaccioso. Quando l’alba rischiarò la grotta in cui Irene aveva creduto di trovarsi e il torpore che aveva avvolto la sua mente era scemato quasi del tutto, la ragazza si rese conto di essere all’interno di un ambiente creato dall’uomo. Al centro della piccola sala riconobbe un altare in pietra dietro il quale, tra macerie di vario genere, giaceva una grossa croce di legno ormai divorata dai tarli avvolta dall’edera. Il soffitto, o ciò che ne restava, era a volta. “Sono in una chiesa” pensò con sorpresa. Si guardò intorno alla ricerca della porta, ma con sgomento vide che l’unica via d’uscita era stata bloccata con delle sedute di legno, un tempo i banchi che avevano ospitato le preghiere dei fedeli, e che entrambe le ante erano state divelte e giacevano a terra. Chiunque l’avesse condotta laggiù aveva avuto il tempo per chiudere con meticolosa cura l’entrata e andarsene indisturbato: voleva dire che non si trovava in una zona molto frequentata.

Un brivido le scivolò lungo la spina dorsale quando da sotto un telo di plastica scura vide spuntare una ruota, assomigliava a quella di un motorino, un oggetto fuori posto tra tutta quella confusione, un oggetto troppo nuovo rispetto al resto. Alzando il telo le mancò il fiato: quello era il suo Malaguti F10. “Cosa ci fa qui?”

Cercò di ricordare quali fossero le ultime cose che aveva fatto prima di essere stata rapita. Il pomeriggio in spiaggia con gli amici, poi era passata a casa per fare una doccia o no, forse si era incontrata con Corrado… No, era stata in spiaggia e poi di sera era andata alla Scuda. Sì, la festa. La festa di Nora Beckford, ora ricordava. Le immagini che si avvicendavano nella sua mente in un’accozzaglia di fotogrammi confusi: lei che parcheggiava il motorino, ragazzi che conosceva a malapena, un abbraccio e delle braccia forti a sostenerla, la musica non le piaceva, la cantina della Scuda, una lucertola, Nora, la maglietta di Nora presa in prestito. Perché aveva la sua maglietta? Non riusciva a ricordarselo. Quella stronza di Nora. La odiava in fondo, allora perché era andata a quella festa? Ah già, Corrado, c’era anche lui, il suo Corrado. E poi… Poi cosa era successo? Qualcuno le aveva offerto da bere, ma non riusciva a mettere a fuoco il ricordo, quale viso le aveva sorriso porgendole un bicchiere di plastica con quel liquido dolciastro… che le avessero dato qualche sostanza? «Oddio, mi hanno drogata e poi mi hanno rapita!» disse, portandosi una mano alla bocca. Le note di What is love fluirono in uno spazio nascosto della sua mente. Forse era la canzone che stavano suonando nel momento in cui era stata colpita e trascinata via priva di sensi?

Si guardò attorno con orrore. Se davvero era stata rapita, era probabile che il suo sequestratore avrebbe fatto ritorno con dell’acqua e del cibo, nei film funziona così. Ma non sempre i genitori del rapito pagavano il riscatto e la cosa poteva non andare a finire bene. Rivide nella propria mente le immagini dei tg che l’anno prima avevano dato grande risalto al rapimento di Farouk Kassam; lui era stato liberato, ma aveva sofferto il freddo, la fame e gli era pure stato tagliato un orecchio. Ebbe un capogiro. I suoi genitori non avevano miliardi di lire, non erano poveri certo, ma nemmeno così facoltosi da potersi permettere di pagare un riscatto di quell’entità. Doveva cercare di andarsene prima che qualcuno facesse ritorno, doveva almeno provarci.

Combattendo con un senso crescente di nausea e scattando al mimino rumore, riuscì a spostare di pochi centimetri verso l’intero uno dei banchi ammassati davanti alla porta: un odore pungente di umido e muffa le colpiva le narici ogni volta che smuoveva qualcosa.

Irene, sfinita dopo quel tentativo di evasione, si appoggiò alla ruota del motorino per riprendere fiato. Attenta ad ogni minimo rumore proveniente dall’esterno, alzò il telo che copriva il suo mezzo alla ricerca di qualcosa da poter usare come ariete per aprirsi un varco attraverso l’uscita. Ma nulla sembrava rispondere alla sua necessità. Si voltò sconsolata andando a frugare oltre il piccolo altare per vedere cosa facesse al caso suo, ma anche lì niente le venne in aiuto. La frustrazione si fece spazio in lei, le lacrime le bagnarono gli occhi e in preda a una rabbia che non conosceva si scagliò con forza su quel mucchio di cose accatastate. Con sorpresa l’ammasso di oggetti cadde verso l’esterno: sembrava fossero state solo posate, come temporanea copertura a nascondere il contenuto della chiesa.

Il profumo di sottobosco le ripulì i polmoni e l’ossigeno che arrivò al cervello diede alla ragazza l’adrenalina necessaria alla fuga. Era libera. Corse nella direzione opposta al sole, le radici sporgenti la ingannarono facendola finire pesantemente a terra. Si rialzò ansimante e riprese la fuga rischiando di cadere ancora: le sue scarpe dalla suola liscia la tradirono in più punti. Perse l’equilibrio e per poco non finì oltre il bordo del sentiero. Si arrestò di colpo e guardò più in basso: arbusti e cespugli di rovi avrebbero frenato la sua caduta, ma risalire da laggiù sarebbe stata dura. E se invece non fosse stata in grado di risalire… be’ non voleva pensarci.

Riprese il cammino prestando maggior attenzione a mantenersi più vicina alla parete rocciosa che in alcuni punti era molto scoscesa e le dava quasi l’impressione di volerla spingere verso il vuoto sottostante.

Quando il sentiero si tramutò in una stradina e poi andò a congiungersi ad una strada sterrata, si concesse del tempo per riposare: pochi minuti per riprendere fiato e avrebbe proseguito. Si massaggiò le tempie acuendo però il dolore. Quanto avrebbe voluto che sua madre fosse stata lì: lei aveva sempre una di quelle pillole per l’emicrania nella tasca interna della borsetta. “Mamma” pensò “aiutami…”. – Voglio tornare a casa – disse rivolta a nessuno.

Riprese a camminare con passi incerti avvolta nell’abbraccio della folta boscaglia, metro dopo metro nella sua mente si fecero spazio immagini intermittenti, come insegne al neon. Braccia possenti, una folta barba, occhi poco amichevoli, una lucertola; un disegno o forse un tatuaggio, non capiva. Poi i suoi occhi vennero colpiti dal sole cocente che oltre la protezione offerta dalla coltre boscosa non dava tregua; si trovò fuori dalla vegetazione e ora la strada costeggiava una vallata aperta con una splendida vista sul mare di Viareggio. In quel momento, cominciò a prendere forma il puzzle i cui pezzi aveva visto susseguirsi nella sua mente come in un film a rallentatore. Qualche nuovo fotogramma andò ad aggiungersi ai ricordi: era successo fuori dalla Scuda, voleva andarsene ma qualcuno l’aveva trattenuta; ed ora era certa dell’identità di quel qualcuno, conosceva quegli occhi, quelle braccia muscolose, era lui: Tommaso Monforti detto la salamandra.

Il mio e i racconti degli altri partecipanti sono disponibili on line, sul sito della fondazione PeccioliPer e fruibili in pdf.

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